“Eleganza fascista” è il titolo del libro di Sofia Gnoli, edito da Carocci, dove la storica della moda mette in evidenza il ruolo giocato dal fascismo per l’affermazione di una moda italiana totalmente indipendente da quella francese. Il regime attribuiva una grande importanza alla moda e la usava anche da un punto di vista propagandistico. Un testo corredato da molte illustrazioni che ripercorre un ventennio difficile ma affascinante in cui il regime tenta ad ogni costo l’italianizzazione del lessico del campo sartoriale. Nel 1936 uscì il Commentario Dizionario Italiano della Moda dove il linguaggio di moda veniva epurato da tutte le parole straniere in uso: per esempio il tailleur divenne “completo a giacca”, le paillettes “pagliuzze”, il pied-de-poule: “millezampe”, i pois “pallini”, i volants “volanti”.
Molto interessante è la parte relativa alla produzione dei tessuti autarchici: rayon, cisalfa, lastex, ginestra, gelso, orbace l’angora (fu la fortuna di Luisa Spagnoli) ed il leggendario lanital. Brevettata nel 1935, in tempi di sanzioni per la guerra in Etiopia, il lanital era una fibra ricavata dal latte con cui venivano confezionati caldissimi ma maleodoranti maglioni. “Il nostro è il tempo dei surrogati” si legge nel 1939 nella Rassegna dell’Ente Nazionale della Moda. “La meravigliosa genialità del popolo italiano ha saputo supplire colla sua inventiva alla mancanza dei doni che la natura non ha voluto concedere al nostro Paese”. La pelliccia veniva proposta di tutti i tipi e in tutte le stagioni, purché rigorosamente nazionale. Per gli abiti da sera l’ispirazione era prevalentemente classicheggiante con drappeggi e plissé che richiamavano l’antica Roma. Alla diffusione di laminati e tessuti riflettenti contribuì non poco Elsa Schiaparelli, che nel 1935 presentò una collezione in cui la zip diveniva elemento decorativo dell’abito da sera e che ebbe uno straordinario successo.
L’Ente nazionale della moda pur godendo di un notevole potere teorico, sul piano pratico la sua azione risultò spesso contraddittoria e confusa.
Lydia De Liguoro fu la fondatrice della rivista prima femminile di moda: Lidel. Finì con l’aderire al fascismo e vi trovò l’ambiente ideale per l’affermazione dell’italianità nel campo dei figurini di moda. Un clima talmente contagioso che a Firenze la contessa Rucellai organizzò un ballo dove era di rigore indossare la tuta disegnata dal futurista Thayaht, “inventore” del capo d’abbigliamento più proletario che ci sia. Cordelia, la Donna, Rakam, Lei (poi divenuta Annabella per colpa della campagna per il “voi”), Grazia, Moda, Vita Femminile e Dea esaltavano le forme armoniose contro la magrezza della “donna crisi”, condannavano i sogni di eleganza esotica, ma nulla potevano contro i potenti miti del cinema hollywoodiano.
L’apertura dei grani magazzini segnò una svolta importante. Nel 1928 arrivò la Upim (Unico prezzo italiano Milano) e tre anni dopo i magazzini Standard destinati a mutare il nome in Standa. Il decennio degli Anni 30 si aprì con due sontuosi matrimoni in cui la sposa vestiva creazioni interamente italiane. Il primo fu quello di Maria José del Belgio, il cui abito venne realizzato da Ventura (su bozzetto del principe Umberto di Savoia) impiegando 600 operaie, che si occuparono anche del corredo nuziale. Il secondo quello di Edda Mussolini – che indossava un abito della sartoria Montorsi – e Galeazzo Ciano.
Grande pioniera dello stile italiano fu la sarta lombarda Rosa Genoni e se si esclude qualche eccezione il riconoscimento internazionale della moda italiana risale agli anni Cinquanta.
Resta incancellabile l’intuizione dell’Ente nazionale della moda che riuscì alla fine a promuovere creatività, competenza, alto artigianato e spirito di iniziativa. Così fu proprio sul finire di una guerra tragica e dolorosa che «gli italiani dopo secoli di sudditanza iniziarono», scrive Sofia Gnoli, «a prendere coscienza del proprio enorme potenziale creativo che preluse all’affermazione del nostro stile nel mondo».
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